10 domande 10 al grande Valerio M. Visintin
Quattro chiacchiere con la firma mangereccia del Corriere, per scoprire qualcosa in più di questo personaggio nascosto, ma tanto amato!
1.Com’è il suo rapporto con il cibo? Un rapporto complicato, infarcito di contraddizioni e conflitti di interessi. Essendo costretto a mangiare due volte, una per vivere e una per sopravvivere, adoro e detesto il cibo. Vorrei possederlo, ma è lui a possedere me. Sul piano psicanalitico, direi che il nostro rapporto è al crocevia tra la sindrome di Stendhal, quella di Stoccolma e quella di Don Giovanni.
2. Com’è cambiato il suo rapporto con il cibo da quando scrive? Scrivo di cibo da un quarto di secolo, che è all’incirca la metà dei miei anni. Confesso, quindi, che mi è difficile ricordare con precisione quale relazione vi fosse, un tempo. Di sicuro è cambiata la taglia dei miei pantaloni. E con essa, si è estinto l’appetito spensierato di chi non ha problemi con la bilancia. Ma la passione resta intatta.
3. Qual’era il suo piatto preferito di quando era bambino? Impossibile eleggere un piatto soltanto, perché ho avuto un imprinting fortunato. Chi potrei collocare in prima posizione? Le sarde in saor che preparava la mia nonna veneziana? La pasta e fagioli, scura e densa, di mia madre o la sua parmigiana di melanzane? Per non far torto a nessuno, mi oriento su una scelta più intimista e psicologica. Scelgo gli spaghetti della domenica pomeriggio. Me li lasciava mia madre. E li riscaldavo io stesso in un pentolino, dopo la partita che giocavo con gli amici ai giardinetti. Spaghetti al pomodoro, che si facevano croccanti dopo il secondo passaggio sul fuoco. Li sotterravo di formaggio grattuggiato e li divoravo in beata solitudine, in cucina, davanti a un piccolo televisore. Furono, forse, il primo atto di una lunga e precoce adolescenza, sulla quale non voglio ancora calare il sipario.
4. Se pensa a sua madre in cucina cosa le viene in mente? Una presenza liquida, ridente e intensa come l’acqua che scorre. La sigaretta accesa nel portacenere. I sughi che sobbollono. La sua voce dolente e marina che canta le canzoni di Aznavour.
5. Milano in cucina: 3 piatti che la caratterizzano. La vera cucina milanese è un terreno limitato nel tempo e nello spazio. Callosa, rurale e “gnucca”, non somiglia affatto alla città di oggi. Ma abbiamo pur sempre tre invenzioni da esportazione. E sono, in ordine gastrologico: il risotto allo zafferano, la cotoletta, il panettone. Burro e opulenza: sono i residui di una antica forma di ricchezza, bonaria, grassa, attaccata alla prosa della vita.
6. Cosa mangerebbe fino a scoppiare? Formaggio e patate. Tutti i tipi di formaggio e le patate in qualsiasi modo.
7. Dove possiamo trovare il gelato più buono di Milano? Ci sono sei o sette gelaterie che si elevano dalla media. Ma non voglio tradire lo spirito della domanda. Perciò, butto lì un nome secco: Gelato Giusto di Vittoria Bortolazzo (in via San Gregorio 17).
8. E la pasticceria più buona di Milano? Anche qui, sto al gioco e azzardo una risposta singola: Martesana di via Cagliero 14.
9. Ama cucinare? se si, il suo piatto migliore? Amavo cucinare, quando ne avevo il tempo. Quando non uscivo a cena 200 volte all’anno. Ero un giovanotto con una grande casa vuota e l’infondata convinzione che le ragazze avessero un debole per i maschi che sanno stare ai fornelli. Un segreto carpito tra le pagine di una rivista femminile, aspettando il mio turno dal medico. Dalla lettura alla pratica fu un passo breve. Trascorrevo le giornate a tagliuzzare, rosolare, imbottire, sfornare, apparecchiare. Imparai che non bisogna mai cedere ai luoghi comuni. Le mie ospiti finivano per apprezzare il cuoco e ignorare il pretendente. Il giorno appresso, rammentavano soltanto il menu: “Ieri sera? Ho mangiato un risotto buonissimo a casa di un tale…non mi ricordo più il nome…”.
10. Cosa ne pensa di tutti questi programmi di cucina? Sono tutti godibili e lodevoli. Non me ne perdo un fotogramma nemmeno se mi pagano. Apprezzo particolarmente il riverbero pedagogico e formativo di trasmissioni quali Master Chef, dove l’autorità preposta si esprime con violenza verbale e materiale, lanciando piatti e insulti come un camallo all’osteria. Che magnifico spettacolo! (Abbiate pazienza, almeno una bugia per intervista è lecita).
Ringrazio per la disponibilità! Per continuare a leggere di lui, potete seguirlo su http://mangiare.milano.corriere.it/
Leave a reply